Etichettatura climatica: quante emissioni di CO2?
Clima e alimentazione
Il cambiamento climatico è un problema ormai innegabile che ha serie conseguenze sulle nostre vite e sulle nostre economie. Le difficoltà a trovare soluzioni globali sono ben rappresentate dal magro risultato della COP26 di Glasgow. Di fronte a tutto ciò, l’impegno personale dei consumatori nell’intraprendere stili di vita più sostenibili diventa di vitale importanza. Questo perché la filiera alimentare è responsabile del 25-30% delle emissioni di gas serra nel mondo, quindi è un settore ben poco sostenibile.
Il Rapporto Ancc-Coop 2021 dimostra come gli italiani siano più disposti a cambiare mentalità rispetto a quanto si potrebbe pensare. Il 40% degli italiani ha dichiarato di aver adottato un’alimentazione più sana ed equilibrata; il 50% è disposto a pagare di più per prodotti più sostenibili; il 90% presta attenzione alla sostenibilità dei prodotti alimentari che acquista; il 15% segue una dieta “climatariana” che mira a ridurre l’impatto ambientale della propria alimentazione. La dieta climatariana è particolarmente diffusa nella Gen Z, che costituisce un potenziale mercato in forte crescita su cui le aziende stanno iniziando a concentrarsi. Di conseguenza, si può dire che la lotta al cambiamento climatico passa anche dalla tavola.
CO2 in etichetta
In questo contesto si inserisce il “climate labeling”, l’etichettatura climatica, che stima l’impatto ambientale dell’intero ciclo di vita di un alimento. Un possibile modello a cui ispirare l’etichettatura climatica è costituito dal sistema a colori del Nutri-Score; i dati da prendere in considerazione includeranno l’anidride carbonica emessa in ogni singolo passaggio produttivo, l’energia e le risorse impiegate e le distanze percorse per far arrivare l’alimento sulla nostra tavola. Uno studio del 2020 del Carbon Trust mostra come i due terzi dei consumatori ritengano una buona idea quella dell’etichettatura climatica; l’Italia si posiziona tra i paesi con il più alto sostegno all’idea, con oltre l’80% dei consumatori che si dichiara favorevole.
Da più parti giungono proposte di rendere obbligatoria l’etichettatura climatica, come già avviene con le etichette nutrizionali. Questo si inserisce nel più ampio contesto delle “3 R” (Reduce, Reuse, Recycle), che costituisce un settore di mercato in crescita costante. Pur trattandosi di una proposta iniziale, alcune aziende si stanno già attrezzando per offrire l’etichettatura climatica su alcuni dei loro prodotti (Tesco nel Regno Unito, Starbucks negli Stati Uniti).
In Italia siamo ancora un po’ indietro; tuttavia, già nel 2015, in occasione dell’Expo a Milano, Ancc-Coop aveva proposto di inserire l’impronta carbonica nel suo supermercato del futuro. L’etichettatura climatica potrebbe essere la spinta definitiva per permettere ai consumatori di prendere scelte più consapevoli dal punto di vista della sostenibilità ambientale. All’obiezione che si tratti di una moda passeggera, un’analisi dell’Università di Copenhagen dà una prospettiva interessante: anche i consumatori meno coinvolti dall’idea, se messi di fronte a due prodotti uguali ma “climaticamente” diversi, tendono a scegliere il prodotto con meno emissioni di CO2.
Scenari futuri
I consumatori hanno una grande leva sul mercato, se riescono ad agire coesi verso un obiettivo specifico. Se riusciranno a consumare più prodotti sostenibili ed etichettati adeguatamente, si apriranno enormi possibilità economiche a cui i produttori tenteranno di dare risposta. Tuttavia, occorrerà aspettare che si verifichino alcuni scenari che faciliteranno questa “transizione” alimentare sostenibile: da un lato, occorrerà avere un quadro legislativo ben definito che imponga l’obbligo di etichettatura climatica per i produttori. Dall’altro, è necessario sviluppare sistemi di calcolo che permettano di registrare i valori di emissioni su tutta la filiera agroalimentare, dal seme allo scaffale. Si tratta di sfide notevoli, ma la seconda appare più difficile da affrontare. Sul web esistono calcolatori dell’impronta climatica, che tuttavia sono approssimativi e basati su valori medi a livello globale. Le tecnologie blockchain potrebbero però essere la risposta al problema del calcolo climatico.